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Critica di Francesco Barocelli

PAOLO BOTTIONI

 

 

 

Inferenze e interferenze nella pittura di Paolo Bottioni

 

Nascono nel mezzo di due stagioni questi dipinti che Paolo Bottioni, pittore, di Parma, dedica a sensazioni, emozioni, trasalimenti, quel che lui potrebbe chiamare incanti o incandescenze, sul tema del colore.

Pretesto ne diventano in questo caso le stagioni della terra, avvertite e  vissute, immaginate e ripensate in una forma imprevista, ma non imprevedibile, dal pittore, insieme ai momenti singoli di vita, desunti da sensazioni, circostanze, impressioni. (“Nella mia pittura il colore ha sempre avuto un ruolo preponderante  nel rappresentare le mie emozioni…”)

Di Paolo Bottioni ho presente le opere degli inizi degli anni '90, quando ebbi modo di conoscerne l’ attitudine al paesaggio.

Disegnava immagini pacate, intitolate alla città, ai Lungoparma estivi, alle prime colline, ai casolari sparsi come macchie di calce bianca nella campagna. Erano delle “vedute”  a distanza che intrepretavano allora un campo sequenza telemetrico, avvicinato dal vivo, preselezionato nel taglio e poi lavorato nelle rifrazioni corpuscolari della luce con una alfabetizzazione “tachista”, tenuta sul versante dell'applicazione del colore e compiuta nel “porre” prima ancora che nel levare. Per così dire un morbido “tachismo”, nel quale  il tocco e la macchia su tela grossa di iuta interpretavano gli elementi naturali e le sensazioni ottiche ed emotive dell’uomo. Era un modo per declinare il paesismo dei parmensi, arte di tradizione, che apparentemente non perdona se esci dai binari e che invece, per la verità, è così indulgente di fronte ai figli impenitenti, da meritare qualche trasgressione in più. Bottioni mi pare abbia inizialmente deciso di non trasgredire, sia pure partecipando al gruppo dei pittori che Alfredo Chiapponi riuniva nella sua bottega- cenacolo a fianco del Battistero di Parma. Non per soggezione, ma per rispetto: l'educazione ricevuta lo porta a misurare i passi, a scandire i momenti della ricerca: qualche natura morta e di nuovo un tuffo nei paesaggi, qualche nudo, e di nuovo il paesaggio come luogo di dibattito e di più quietata soddisfazione. Lo appassiona il controllo che esercita con il dato di natura con l'espressione rifratta della luce e la possibilità di aggiungere un dato di originalità alla fenomenica registrazione del reale e senza uscire dal binario della predilezione parmense per la presa dal vivo. Non aveva torto. Così mi pare possa essergli cresciuta l'educazione al vedere, l'aspirazione al possedere, all'interpretare, sino ad accedere ad un'azione più disinvolta, starei per aggiungere, disinibita, dinnanzi alle costellazioni della pittura locale. E giacché ogni esperienza artistica si collega a una inquietudine interiore, è con quel misto di passioni e di emozioni che Bottioni ha inteso compiere una sua ascesi artistica alla quale si sono accompagnate anche molte letture d'arte.

La curiosità intellettuale può allearsi ad una natura metodica. Bottioni ha queste complessioni. Sicchè, iniziato un corso, difficilmente ne esce senza dirimere la questione che gli sta a cuore(“La tela diventa spazio interiore dove vengono trascritte le emozioni, i sentimenti che le situazioni della vita e delle cose hanno provocato nell’artista…”).

Allora ecco entrare da subito la questione dei colori e della loro forme, come dato fenomenico e reale, dei pieni e dei vuoti, di ciò che è chiuso e di ciò che è aperto, interpretando la natura come il luogo delle apparenze e delle circostanze, del vedere, come se si componesse di una densità di relazioni coloristico-luminose che rende l'universo fisico innanzitutto un sistema di segni cromatici. E mi piace riprendere ancora dalle parole del pittore:”Nella pittura …astratta in particolare il colore, insieme a forma, segno, luce, masse e spazio costituisce un dato puro…”.

Declinato in tale percezione empirica del dato naturale è lo spazio in cui si iscrive l'osservazione in quest'ultimo decennio di opere, ancora denso di riferimenti alla naturalità dell' esistenza e al concerto dei fenomeni che ne fanno da cornice. Ne è stata ottima occasione di misura la mostra personale tenuta a Piacenza nel 2006 con un pregevole catalogo che mette a confronto oltre venticinque anni di lavori(M. Dall’Acqua, “Paolo Bottioni”, Piacenza 2006).

 All’ultima fase della sua azione risalgono i termini di una svolta decisiva nell’interpretare le funzioni della sua pittura.

Appunto ad inferenze ed interferenze nel sistema figurativo inducono a pensare queste opere che portano l’esito degli ultimi anni di ripensamenti sui temi della forma, del colore, dell’iconismo dell’aniconismo, del figurativo e del suo contrario.

Perciò si è pensato alle inferenze presenti in questo procedere logico e creativo; esse stabiliscono un trasporto tra ciò che è vero e ciò che ne è immagine o impressione emotivamente desunta e contenuta in esso.

Il processo che Bottioni compie è sin dall'inizio quello di estrarre e poi di ricomporre e di ridefinire, sull'onda di un dilemma che appartiene alla funzione delle arti visive almeno da quando si chiarì nel corso del Novecento il rapporto tra astrazione e realtà.

La sua osservazione ha radici nel sistema del tardo neoimpressionismo (Casolare nel verde, 1988; Paesaggio, 1988; Neve al mattino, 1992; Il Ponte di mezzo, 1992, etc.).Nelle sue tele al tessuto pittorico corrispondeva  già nelle prove degli anni Ottanta una diffrazione luminosa e poi una ricomposizione dell’immagine per associazioni cromatiche, che ne distinguevano le partiture e un interiore vibrato.

Nè è un caso che anche nei suoi primi dipinti la soluzione cromatica sia ricercata in un tessitura a tessere cromatiche, preferendo spezzare le sensazioni, scomporle in una trama di macchie, che si intessono ora secondo i tracciati della regolarità ortogonale ora con andamento scaleno.

(“Paesaggio montano”,  1996; “Case sul Parma”, 1997;)

Si scompone il paesaggio, mentre si decodificano i colori e li si riconduce ad unità apparente. (“Castello di Torrechiara”, 2002)

Del resto che questa attenzione alla scala cromatica e ai fondamenti ottici del vedere abbia un posto di rilievo nell’operare di Bottioni lo dimostra l'attenzione da lui rivolta  ai testi di Rudolf Arnheim e alla sua psicologia della visione.

Sono  parte di una serie di tessere cromatiche – si diceva - che da minime, col pennello usato in piatto, passano, nel momento della tecnica a spatola, a campi più ampi di colore puro (Paesaggio 1996, con citazioni da De Stael). E’ come se l'immagine diventasse un sistema di “pixel” pittorici, parti componenti di un insieme ricomposto secondo una categoria visuale sulla quale l'immagine reale si sovrappone, come si trattasse di una specie di modulo posto a filtro dell'assunto visivo. Esito ne è la sintesi visuale che si riassume negli ultimi dipinti ove le immagini si ricompongo come a bassa risoluzione e poi a definizione dilatata. (Colline, 2003; “Paesaggio”, 2004; “Gli umori della terra”, 2005; “Temporale estivo”, 2003; “Temporale”, 2005)

Affiorano perciò interferenze con la cultura artistica alla quale Bottioni non intende rinunciare, per atto di convinzione e di discepolato insieme, nel riconiugare il post-impressionismo originario con le dinamiche recenziori  dell'espressionimo astratto e delle sue più recenti o riaffioranti riprese di cui è densa la seconda metà del Novecento.

E’ del resto dalla letteratura artistica della metà del ‘900 che possiamo attingere le celebri affermazioni di una autore noto:

”Quello che mi preme è esprimere le mie sensazioni piuttosto che descriverle” ”La tecnica non è che un mezzo per arrivare a questa espressione”. Parole che appartengono ad una antologia dell’espressionimo astratto d’oltreoceano intorno alla metà del secolo scorso, ma che potrebbero rinnovarsi ad oggi

 La produzione di Bottioni degli ultimi anni si qualifica entro questa estensione di ricerca. E' verso le superfici terrestri e oggettive che egli ha sempre nutrito interesse. Ora potremmo aggiungere che lo sguardo lo porta oltre il mantello cromatico del fenomenico. (“Spiaggia a San Sebastian”, 2003; “Corrida”, 2003; “Autunno”, 2005)

L’autore, senza scardinare la forma, allarga il campione d'indagine, entra nella struttura dell'elemento visivo, associa le parti come tessere ingrandite della struttura metempirica di cui si compone il suo fantastico. Colloquia con l'intensità emotiva con la quale molti anni prima interpretava le atmosfere della città, e con la conferma che può declinarsi nelle desinenze dei rapporti fondamentali tra colori puri e complementari, dalla accensione di una impressione sino alla definizione di una espressione interiore. Il tema delle impressioni-espressioni è ricorrente nè usuale. Se tradotto in pittura pare un evento fisico, piuttosto che “chimico”, perciò non materico, bensi ottico, ortottico, e autoptico. Vi si riconosce il primato della visione. Nella scomposizione dei colori la matrice astraente, ove si ripercuotono i richiami, che altrove non a caso sono stati fatti, all'espressionismo astraente di Afro, di Baselitz, etc., permane il segno dell'impressione-emozione, vale a dire la traduzione nell'effetto visivo della emozione interiore: l’ “Inizio di primavera ” (2006) ha il germinativo vibrare di una emozione musicale che schiude al tratto compiuto e al fare bloccato della sua variante  “La primavera ci sta lasciando”(2006). Così “Autunno alle porte”(2006) ha un lirismo che sconta la polarizzazione sul rosso del “Caldo autunno”(2006), continua in un andante nel “Dolcezze d’autunno”(2006) per chiudersi nell' inferenza del ”Sul finire dell’autunno”(2006) che è un inserto di segni in diagonale ove si apre il taglio del colore “nero”, assunto a matrice della struttura, taglio e ferita, cuneo e intermittenza, che assorbe in sè la luce, e sul quale si sovrappongono le parti dei colori complementari. Il colore per Bottioni già prima non era materia, ma rappresentazione della medesima.  

Il sentimento per la forma che caratterizza tutta la tradizione parmense, ancor più di quella emiliana, lo obbligava dapprima a velare l’io reale , a celarne la consistenza, attraverso le “taches” con cui si componevano i paesaggi. Il torrente, il ponte, il lungofiume non ne perdevano in evocazione, ne guadagnavano in autonomia.

Bottioni già allora si poneva la questione sotto pelle, percorrendo il flusso delle situazioni per individuare il luogo ove si sostenesse il tessuto visivo, e su quali veicoli si ritenesse di sovrapporre l'armatura del colore.

 Col declinare della forma oggettuale ha preso corpo l’effrazione cromatica in nero.

Il nero è come il segno di una faglia che divide le parti della superficie, le distingue, le bi- o ri-partisce.

Come un segnale ottico il nero interrompe, interagisce, annulla, crea intermittenze tra i colori primi.

In “Oasi dello Ziz”(2006) è complementare alla forza strutturata del colore. In “Discesa libera”(2007) è l'impronta sulla quale si regge una bicromia tenuta su di una selezione fredda. In “Nebbia”(2007) dà vita ad una veduta astraente che spezza lo spettro cinereo del riferimento semantico per ridefinire lo spazio in un'orditura serrata. Bottioni ingaggia una partita col sistema cromatico dove si intride di assonanze il suo entusiasmo pittorico (“Luci di Venezia”, 2007), nel lasciare campo al contrasto a macchie candenti, che hanno la funzione di rimando ad impressioni visive.

Non sempre occorre abbandonare la forma. La forma è convenzione. Semmai occorre capire la non-materia del colore. (“Colori d’estate”, 2006; “Incendio”, 2006)

Di qui si giustifica il ricorso ai colori primitivi. Ma quanto alla poetica kandiskyana del colore, alla quale s'è fatto un rimando, è tutto da vedere; proprio nei termini di quell’espressionismo astratto dal segno bruno, forte e astraente che giunge in Europa attraverso F. Kline e M. Tobey, negli anni cinquanta e sessanta, e che conosce adesioni nel Vecchio continente ancora negli ultimi decenni del secolo scorso.

L'educazione alla visione può indurre alle contaminazioni, ma ciò è la parte transeunte e peribile.

L' assunzione di colori primari va di pari passo con le rapide scansioni in nero. Il colore che nega la luce riassorbe la sintassi di ogni scala cromatica e per contrasto è complementare a tutti i colori.

Le scansioni segmentano, tagliano, rompono, non matericamente ma compulsivamente, come un “alfabeto morse”, trasmesso nella tattilità della luce o attraverso la negazione della medesima.

Attraverso il segno si entra nell’arsi, nell’intermittenza di questo flusso alternato di emissioni. E’il luogo della crisi, della discesa, della ricerca. Nel segmento di non colore si annida il negativo. Ma il negativo è il luogo della struttura. Senza l'interruzione non vi sarebbe la luce cromatica o quella assoluta, senza l'antimateria non vi sarebbe la materia: l’”e^tre et le néant”.

Bottioni sembrava prima attardarsi a disegnare con metafore la vita quotidiana. Ora s'avverte come i dipinti nascano da sensazioni ormai dissociate. Il pretesto non appartiene più alla forma. La  struttura del reale dal quale è partito era già un telaio di forme “en plat”. Lo dicevo quindici anni or sono. Oggi se ne ha la conferma.

 Allora che emerge? Il medium. La tavola o la tela in Bottioni è diventata da qualche anno il luogo della interazione. E' lui il latore del messaggio è colui che lo trasmette; ma il messaggio è la superficie riflettente di una onda di pura autonomia dove il tangibile  diventa metempirico e dove l'artista sprigiona la sua autoreferenzialità e la conquistata autonomia espressiva.

Allora sono le stagioni a segnare le frazioni del tempo. La soglia della funzione acronica è il nero. Ferita e cucitura tra superfici.

 Affiora la coscienza della inconoscibilità del reale, se non per singoli fenomeni, per asistemica associazione di idee, per microsistemi nelle effrazioni cromatiche, se non nelle crasi, nelle fibrillazioni del conoscibile, nella definizione empirica (e scettica) della realtà.

 Che ritrovi in questi messaggi se non una tensione, nè sotterranea nè metaforica, ma a questo punto reale? Una tensione che ha come proiezione la frazione e l’ effrazione rispetto al visibile apparentemente positivo del colore, il ritmo denso del segno  nero sul margine cromatico del tempo (“Autunno”, 2005).

 Bottioni ha appreso che la ricerca, oggi più di ieri,  va verso le dinamiche espressive, fatte di onde sequenziali, ma anche di interferenze e di intermittenze del segnale, e in special modo quando si esce dai codici e si sceglie il libero confronto con la luce del colore. A questo passaggio è giunto dopo un lungo percorso, togliendo, in luogo di aggiungere, scegliendo, in luogo di rimuovere, sino alle equazioni ove l'ibrido della realtà non può entrare solo se non attraverso la prova empirica, il campione di tessuto, assunto come modello sperimentale.

 Queste dinamiche spiegano le ultime scelte; e meglio spiegano la frazione dell'ultimo percorso. Quanto il programma presente fosse in potenza lo abbiamo detto; quanto coerente con le funzioni dei suoi paesaggi in lamina di quarzo (“Campanile basso”, 2006;  Discesa libera”, 2007), lo si era preannunciato già nelle prime disamine sul paesismo e nelle vedute.

L'inquietudine è la forza interiore che spinge, che eroga l'impulso, una forza intangibile, immaterica, alla quale non si può dare risposta. La corale adesione alle voci di questa protesta inattiva, ma espressa, sono parte della cultura che giunge sino ad oggi, nella quale le funzioni dell'espressionismo diventano versione nuova e attualizzata del primo dissociarsi della materia dall'anti-materia, del colore dall’oggetto, della forma dalla realtà.

Si aprono per Bottioni le coste frastagliate della pittura d'emozione, quella fatta dinnanzi al senso della vita che scorre, dove si depositano le sensazioni dell'esistenza su uno strato che non è solo di foglie o di memorie, ma fatto di impulsi di luce e di colore, susseguenti e costanti, misurato nello scorrere intermittente di inferenze e interferenze, tra arte e realtà, tra pensiero e visione.